Sono ormai trascorsi più di trent'anni da quanto la legge 517 del 4 agosto 1977 ha abolito nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado le preesistenti barriere tra bambini normali e bambini disabili.
A fondamento di una riforma che è stata quasi unitamente accolta come un'ulteriore conquista della civiltà, sono state poste molteplici considerazioni sia di ordine etico, sociale, psicologico, scientifico, che didattico-pedagogico. Con le stesse si è ritenuto che i bambini, affetti da minorazioni di natura psicofisica e sensoriale di varia entità, dovessero uscire dal malinconico ghetto delle scuole "speciali" e delle classi "differenziali", per beneficiare del sano e stimolante contatto con i loro più fortunati coetanei.
Infatti il continuo crescere del numero degli alunni in difficoltà, inseriti nelle classi comuni, dimostra, in linea di massima, la validità di tali concetti. Altro discorso, invece, è quello dell'efficacia dell'operazione, così come è stata sinora condotta.
Oggi le classi comuni della scuola dell'obbligo accolgono circa 125.000 bambini disabili su una popolazione scolastica di circa 6.000.000 di alunni.
In esse il processo di inserimento è sostenuto dalla presenza di circa 40.000 insegnanti "aggiuntivi", chiamati comunemente di "sostegno", con il compito precipuo di compensare fin dove è possibile, con l'utilizzo di tecniche specifiche, la minore attitudine di tali soggetti a fruire del normale processo educativo.
Da quanto detto sopra appare chiaro l'alto costo sociale della riforma, considerato anche la distribuzione nelle classi - dove il numero complessivo di alunni non può superare le venti unità (legge 517/77)- dei soggetti in evidente difficoltà.
Tuttavia questa riforma sembra imporsi alle coscienze civili come doverosa ed irreversibile; nel contempo appare chiaro come l'integrazione scolastica non è che un momento nel tentativo di reinserimento sociale di soggetti i quali, appunto, perché menomati, nella loro integrità psicofisica e sensoriale, appartengono oltre che alla Scuola anche e, soprattutto, in ordine cronologico, prima la scienza medica con i suoi sistemi di prevenzione, poi alla razionale politica di intervento degli Enti locali, sia pubblici che privati,presenti nel territorio.
La consegna dei soggetti "altrimenti abili" alla Scuola, momento importante, ma non esclusivo e conclusivo, della loro formazione educativa, dovrebbe essere operata in reciproca cooperazione, sempre e dovunque, dalle strutture sanitarie e amministrative (C.M. n.° 258/83), con lo specifico apporto di contributi di propria competenza, necessari non solo all'integrazione scolastica, ma anche sociale.
Il condizionale, però sta a significare che non sempre è così, pur essendo la premessa indispensabile per un corretto rapporto tra "handicap e scuola" ed "handicap e società".
L'attuale realtà vede, invece, il bambino bisognoso consegnato dalla famiglia, spesse volte impreparata, alla scuola e lì quasi abbandonato da tutte le strutture sociali, alle quali competono invece, come abbiamo detto innanzi, un ruolo preminente e prioritario rispetto alla scuola che accoglie questi bambini già strutturati e "ben" consolidati nel loro handicap, con tutti i risvolti psicosociali collegati alla minorazione stessa.
Il discorso di una reale integrazione, e non di un qualsiasi inserimento scolastico, comincia con queste premesse e in queste condizioni.
L'alunno disabile è affidato, nella maggior parte dei casi, all'insegnante di sostegno, perché questi provveda da solo ad operare il "MIRACOLO" dell'integrazione, servendosi del solo bagaglio di nozioni acquisito in un frettoloso corso di specializzazione polivalente, con cui valutare le esigenze, le potenzialità, il grado di scolarizzazione, le complesse tecniche educative di recupero, il sottile confine che tanto spesso divide la diversità dalla normalità: è questa un'operazione piena di incognite e di pericoli, che può tradursi in un'emarginazione peggiore di quella in cui si era ritenuto di porre rimedio.
Con la Legge 517 si è voluta una riforma ambiziosa, ma sembra che finora sia mancata una rigorosa verifica dei suoi limiti e delle sue condizioni attuali.
Se, invece, si è voluto intendere recupero del disabile, socializzazione, fiducia nell'efficacia del quotidiano contatto con la normalità, ai fini di un suo fattivo avvicinamento ad essa, occorre controllare che questi obiettivi siano stati raggiunti, ed eventualmente aver il coraggio di cambiare, di modificare e di eliminare dalla legge tutto ciò che finora non ha consentito agli stessi bambini disabili di mostrarsi al mondo intero come esseri diversi, sì, ma sempre come persone uguali agli altri.
Per ottenere ciò, occorre prima di tutto avere tutti i supporti di cui l’integrazione ha bisogno, che non è il solo insegnante di sostegno, ma comprende consulenze di équipes medico-specialistiche e socio-psico-pedagogiche, assistenza per i più gravi da parte di personale qualificato, adattamento alle esigenze dell’handicappato delle strutture edilizie e dell’arredamento scolastico e, in particolar modo, di una corretta diffusione della cultura dell’handicap, che attualmente costituisce una barriera fra le più insormontabili e difficili da eliminare.
Se invece per integrazione si è voluto intendere la sola abolizione della segregazione in scuole speciali e in classi differenziali, perché l’alunno non venga più considerato diverso, e se da qualcuno si ritiene raggiunto tale obiettivo con il semplice ingresso dello stesso nelle classi normali, allora sarà bene tenere presente che l’offrire, “sic et simpliciter” a chi non è in grado di beneficiarne, le stesse opportunità degli alunni normali, potrebbe costituire la peggiore fra tutte le possibili forme di emarginazione, una crudeltà peggiore di quella che si vorrebbe eliminare, con l’aggravante degli inevitabili disagi che si determinano nell’ambiente scolastico, familiare e sociale.
Occorre, invece, tenere sempre presente che per il soggetto handicappato che si affaccia alla ribalta della società con le sue esigenze, con i suoi impedimenti, con le sue reazioni incontrollate e imprevedibili, e si proietta nel mondo della normalità, il problema non si elimina da sé, ma nasce proprio in quel momento e si va accrescendo sempre di più.
Allora esso chiama in causa, con obblighi ben precisi e con responsabilità ben definite, settori diversi dell’Amministrazione pubblica e privata. Per quanto detto sopra occorre che ciascun Ente, compresa la Scuola, per la parte di propria competenza, dica con chiarezza se ha la volontà ed i mezzi per assolvere il proprio ruolo. In caso contrario è necessario “riformare” la riforma, procedendo con più oculatezza e concretezza, considerando prioritariamente le strutture che già esistono e i mezzi necessari a farle funzionare, non inventando sulla carta ciò che non esiste e che non potrà, forse, mai esistere.
Nello stato attuale di crisi, la Scuola italiana non è in grado di badare a se stessa e, quindi, tanto meno ai portatori di handicap. Tuttavia la presenza di questi ultimi può costringere l’Amministrazione a ripensare globalmente alla sua funzione e sollecitare un modello di scuola diverso. L’esigenza dell’integrazione, non solo dei disabili, ma anche degli alunni difficili in genere, può permettere di superare sia l’attuale rigida struttura della scuola e della classe che il ruolo e la funzione docente. Se la scuola riuscirà, infatti, ad assumere i caratteri di una comunità aperta, potrà assolvere, inizialmente in modo sperimentale, con più convinzione la sua funzione di promuovere lo sviluppo integrale dell’alunno, considerato nei suoi aspetti fisici e psichici. Il tradizionale schema metodologico e didattico della classe chiusa, della struttura rigida è fuorviante e penalizzante. Occorre attuare il sistema delle classi aperte con la formazione di gruppi di tipo interclasse, che possono riunirsi orizzontalmente a livello dì classi parallele e verticalmente a livello di ciclo per attività di recupero, integrative ed espressive. In una scuola così concepita, dove tutto è in continuo divenire, può trovare posto il disabile. L’alunno non farebbe parte, in modo rigido e passivo, di una classe, ma di tutta la comunità scolastica, dove, di volta in volta, si troverebbe inserito nel gruppo di studio o di attività che è più confacente alle proprie capacità, alle proprie possibilità ed inclinazioni. L’insegnante di sostegno, invece, non stabilirebbe un rapporto esclusivo e privilegiato con l’alunno handicappato, ma la sua azione sarebbe sostenuta da tutti gli altri docenti e sarebbe nel contempo il tratto di unione tra scuola ed Enti locali. Per poter realizzare nelle scuole un simile modello educativo bisogna preparare gli operatori scolastici in modo diverso dall’attuale. Infatti l’aggiornamento del personale docente deve uscire dalla mera concezione volontaristica e di eccezionalità, ma deve essere un processo costante e permanente, considerato come servizio effettivo e programmato con frequente periodicità. Solo così si possono seguire e sperimentare vie diverse dalle attuali per trovare una soluzione che sia più adeguata e soddisfacente all’intera comunità scolastica e all’alunno portatore di disabilità. Soltando sperimentando e verificando si potrà uscire dal limbo delle astratte petizioni di principio e tentare di realizzare un’effettiva giustizia sociale che sia in conformità ai principi della nostra Costituzione, alla quale, spesse svolte, si fa riferimento in modo enfatico e solenne. A questo punto, per concludere, è necessario che lo Stato, le Regioni, i Comuni, le UU.SS.LL. ed associazioni varie, in modo perentorio, inizino a legiferare per mettere a disposizione, non delle scuole, ma dei cittadini che sono più vulnerabili e bisognevoli, tutte quelle strutture e figure professionali di operatori che siano di supporto e di continuazione all’azione educativa della scuola.
E’ necessario che gli Enti presenti nel territorio si raccordino, ognuno nell’ambito delle proprie competenze, per elargire tutti i servizi effettivamente necessari per poter crescere tutti insieme ed è proprio nelle capacità di risposte positive, che si scommette la professionalità e la coscienza morale e civile degli operatori scolastici e sociosanitari.
Se invece per integrazione si è voluto intendere la sola abolizione della segregazione in scuole speciali e in classi differenziali, perché l’alunno non venga più considerato diverso, e se da qualcuno si ritiene raggiunto tale obiettivo con il semplice ingresso dello stesso nelle classi normali, allora sarà bene tenere presente che l’offrire, “sic et simpliciter” a chi non è in grado di beneficiarne, le stesse opportunità degli alunni normali, potrebbe costituire la peggiore fra tutte le possibili forme di emarginazione, una crudeltà peggiore di quella che si vorrebbe eliminare, con l’aggravante degli inevitabili disagi che si determinano nell’ambiente scolastico, familiare e sociale.
Occorre, invece, tenere sempre presente che per il soggetto handicappato che si affaccia alla ribalta della società con le sue esigenze, con i suoi impedimenti, con le sue reazioni incontrollate e imprevedibili, e si proietta nel mondo della normalità, il problema non si elimina da sé, ma nasce proprio in quel momento e si va accrescendo sempre di più.
Allora esso chiama in causa, con obblighi ben precisi e con responsabilità ben definite, settori diversi dell’Amministrazione pubblica e privata. Per quanto detto sopra occorre che ciascun Ente, compresa la Scuola, per la parte di propria competenza, dica con chiarezza se ha la volontà ed i mezzi per assolvere il proprio ruolo. In caso contrario è necessario “riformare” la riforma, procedendo con più oculatezza e concretezza, considerando prioritariamente le strutture che già esistono e i mezzi necessari a farle funzionare, non inventando sulla carta ciò che non esiste e che non potrà, forse, mai esistere.
Nello stato attuale di crisi, la Scuola italiana non è in grado di badare a se stessa e, quindi, tanto meno ai portatori di handicap. Tuttavia la presenza di questi ultimi può costringere l’Amministrazione a ripensare globalmente alla sua funzione e sollecitare un modello di scuola diverso. L’esigenza dell’integrazione, non solo dei disabili, ma anche degli alunni difficili in genere, può permettere di superare sia l’attuale rigida struttura della scuola e della classe che il ruolo e la funzione docente. Se la scuola riuscirà, infatti, ad assumere i caratteri di una comunità aperta, potrà assolvere, inizialmente in modo sperimentale, con più convinzione la sua funzione di promuovere lo sviluppo integrale dell’alunno, considerato nei suoi aspetti fisici e psichici. Il tradizionale schema metodologico e didattico della classe chiusa, della struttura rigida è fuorviante e penalizzante. Occorre attuare il sistema delle classi aperte con la formazione di gruppi di tipo interclasse, che possono riunirsi orizzontalmente a livello dì classi parallele e verticalmente a livello di ciclo per attività di recupero, integrative ed espressive. In una scuola così concepita, dove tutto è in continuo divenire, può trovare posto il disabile. L’alunno non farebbe parte, in modo rigido e passivo, di una classe, ma di tutta la comunità scolastica, dove, di volta in volta, si troverebbe inserito nel gruppo di studio o di attività che è più confacente alle proprie capacità, alle proprie possibilità ed inclinazioni. L’insegnante di sostegno, invece, non stabilirebbe un rapporto esclusivo e privilegiato con l’alunno handicappato, ma la sua azione sarebbe sostenuta da tutti gli altri docenti e sarebbe nel contempo il tratto di unione tra scuola ed Enti locali. Per poter realizzare nelle scuole un simile modello educativo bisogna preparare gli operatori scolastici in modo diverso dall’attuale. Infatti l’aggiornamento del personale docente deve uscire dalla mera concezione volontaristica e di eccezionalità, ma deve essere un processo costante e permanente, considerato come servizio effettivo e programmato con frequente periodicità. Solo così si possono seguire e sperimentare vie diverse dalle attuali per trovare una soluzione che sia più adeguata e soddisfacente all’intera comunità scolastica e all’alunno portatore di disabilità. Soltando sperimentando e verificando si potrà uscire dal limbo delle astratte petizioni di principio e tentare di realizzare un’effettiva giustizia sociale che sia in conformità ai principi della nostra Costituzione, alla quale, spesse svolte, si fa riferimento in modo enfatico e solenne. A questo punto, per concludere, è necessario che lo Stato, le Regioni, i Comuni, le UU.SS.LL. ed associazioni varie, in modo perentorio, inizino a legiferare per mettere a disposizione, non delle scuole, ma dei cittadini che sono più vulnerabili e bisognevoli, tutte quelle strutture e figure professionali di operatori che siano di supporto e di continuazione all’azione educativa della scuola.
E’ necessario che gli Enti presenti nel territorio si raccordino, ognuno nell’ambito delle proprie competenze, per elargire tutti i servizi effettivamente necessari per poter crescere tutti insieme ed è proprio nelle capacità di risposte positive, che si scommette la professionalità e la coscienza morale e civile degli operatori scolastici e sociosanitari.






