
La seconda fase, la sociale, è caratterizzata dalla contestazione del “sessantotto” che sottopose a dura critica l’approccio puramente medico-specialistico, accusandolo di emarginare i soggetti portatori di handicap ed evidenziò contemporaneamente la decisiva importanza dei fattori socio-politico-culturali per l’integrazione e l’educazione dei soggetti handicappati. L’enucleazione dei fattori “ambientali” mise in ombra i fattori “bio-generici” che avevano avuto un’importanza predominante nella fase precedente.
E’ in questa fase che le consacrate distinzioni tra “normale” e “anormale” furono messe in discussione, soprattutto dagli studiosi che davano all’interpretazione del problema una valenza prettamente umana. Nacque da ciò una polemica tra le due opposte posizioni. L’una, secondo il proprio giudizio dell’handicap, ne riconduceva l’origine a una forma di innatismo e, pertanto, il recupero diventava alquanto difficile; l’altra, seguendo un criterio ambientalistico, riconosceva la genesi dell’anomalia in cause prettamente sociali.
Tale polemica, però, con lo sviluppo delle scienze umane, permetteva il superamento progressivo della radicalizzazione del problema, con una netta prevalenza della concezione ambientalista e sociale. Ciò ha portato ad una maggiore e più pressante richiesta dell’inserimento scolastico dei soggetti handicappati nelle classi comuni della scuola dell’obbligo, abbandonando così, via via, le scuole speciali e le classi differenziali. L’uomo infatti si manifesta alla società per quello che è, ed interagisce con essa secondo la personale struttura psico-fisica; la comunità, quindi, lo deve accettare così com’è, senza creare barriere psicologiche che ne impediscano la sua totale integrazione sociale. L’handicap non esiste, dicono gli ambientalisti, ma è un’invenzione della società che, stabilendo dei fittizi parametri umani, considera diverso o anormale tutto ciò che non rientra in “prototipi” precostituiti.
Se l’handicap non esiste, dunque, ed è una creatura della struttura sociale, il problema si deve risolvere attraverso la società e non fuori di essa. Non esistono esseri umani che siano uguali e identici come gocce d’acqua, ma tutti sono diversi e tutti sono persone. Grazie all’effetto ditali principi, che s’andavano affermando sempre di più, man mano che l’uomo-tecnologico crollava inesorabilmente con l’acuirsi della crisi economica degli anni sessanta e settanta, appannando lo sfavillio dell’oro e del benessere che avevano sorretto il boom degli anni precedenti, in Italia fiorivano una serie di provvedimenti legislativi che portavano gradualmente all’inserimento totale, ed in tantissimi casi selvaggio, del disabile nelle classi comuni dell’obbligo.
I primi sintomi della nuova tendenza si tradussero in Parlamento con la legge 30 marzo 1971, n. 118; essa all’art. 2 dava, per la prima volta nella legislazione italiana, una definizione specifica di soggetto handicappato: “Agli effetti della presente legge, si considerano mutilati ed invalidi civili i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali, che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.
Sono esclusi gli invalidi per cause di guerra, di lavoro, di servizio, nonché i ciechi e sordomuti per i quali provvedono altre leggi”.
Gli articoli 27 e 28 qui sotto riportati trattano, invece, delle barriere architettoniche e del loro abbattimento, del trasporto gratuito e dell’assistenza durante l’orario scolastico.
E’ in questa fase che le consacrate distinzioni tra “normale” e “anormale” furono messe in discussione, soprattutto dagli studiosi che davano all’interpretazione del problema una valenza prettamente umana. Nacque da ciò una polemica tra le due opposte posizioni. L’una, secondo il proprio giudizio dell’handicap, ne riconduceva l’origine a una forma di innatismo e, pertanto, il recupero diventava alquanto difficile; l’altra, seguendo un criterio ambientalistico, riconosceva la genesi dell’anomalia in cause prettamente sociali.
Tale polemica, però, con lo sviluppo delle scienze umane, permetteva il superamento progressivo della radicalizzazione del problema, con una netta prevalenza della concezione ambientalista e sociale. Ciò ha portato ad una maggiore e più pressante richiesta dell’inserimento scolastico dei soggetti handicappati nelle classi comuni della scuola dell’obbligo, abbandonando così, via via, le scuole speciali e le classi differenziali. L’uomo infatti si manifesta alla società per quello che è, ed interagisce con essa secondo la personale struttura psico-fisica; la comunità, quindi, lo deve accettare così com’è, senza creare barriere psicologiche che ne impediscano la sua totale integrazione sociale. L’handicap non esiste, dicono gli ambientalisti, ma è un’invenzione della società che, stabilendo dei fittizi parametri umani, considera diverso o anormale tutto ciò che non rientra in “prototipi” precostituiti.
Se l’handicap non esiste, dunque, ed è una creatura della struttura sociale, il problema si deve risolvere attraverso la società e non fuori di essa. Non esistono esseri umani che siano uguali e identici come gocce d’acqua, ma tutti sono diversi e tutti sono persone. Grazie all’effetto ditali principi, che s’andavano affermando sempre di più, man mano che l’uomo-tecnologico crollava inesorabilmente con l’acuirsi della crisi economica degli anni sessanta e settanta, appannando lo sfavillio dell’oro e del benessere che avevano sorretto il boom degli anni precedenti, in Italia fiorivano una serie di provvedimenti legislativi che portavano gradualmente all’inserimento totale, ed in tantissimi casi selvaggio, del disabile nelle classi comuni dell’obbligo.
I primi sintomi della nuova tendenza si tradussero in Parlamento con la legge 30 marzo 1971, n. 118; essa all’art. 2 dava, per la prima volta nella legislazione italiana, una definizione specifica di soggetto handicappato: “Agli effetti della presente legge, si considerano mutilati ed invalidi civili i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali, che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età.
Sono esclusi gli invalidi per cause di guerra, di lavoro, di servizio, nonché i ciechi e sordomuti per i quali provvedono altre leggi”.
Gli articoli 27 e 28 qui sotto riportati trattano, invece, delle barriere architettoniche e del loro abbattimento, del trasporto gratuito e dell’assistenza durante l’orario scolastico.
Art. 27: Per facilitare la vita di relazione dei mutilati e invalidi civili gli edifici pubblici o aperti al pubblico e le istituzioni scolastiche, prescolastiche o di interesse sociale di nuova edificazione dovranno essere costruiti in conformità alla circolare del Ministero dei lavori pubblici del 15 giugno 1968 riguardante l’eliminazione delle barriere architettoniche anche apportando le possibili e conformi varianti agli edifici appaltati o già costruiti all’entrata in vigore della presente legge; i servizi di trasporti pubblici ed in particolare i tram e le metropolitane dovranno essere accessibili agli invalidi non deambulanti; in nessun luogo pubblico o aperto al pubblico può essere vietato l’accesso ai minorati; in tutti i luoghi dove si svolgono pubbliche manifestazioni o spettacoli, che saranno in futuro edificati, dovrà essere previsto e riservato uno spazio agli invalidi in carrozzella; gli alloggi situati nei piani terreni dei caseggiati dell’edilizia economica e popolare dovranno essere assegnati per precedenza agli invalidi che hanno difficoltà di deambulazione, qualora ne facciano richiesta.
Le norme di attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo saranno emanate, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta dei Ministri competenti, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge.
Art. 28: Ai mutilati e invalidi civili che non siano autosufficienti e che frequentino la scuola dell’obbligo o i corsi di addestramento professionale finanziati dallo Stato vengono assicurati:
a) il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla sede della scuola o del corso e viceversa, a carico dei patronati scolastici o dei consorzi dei patronati scolastici o degli enti gestori dei corsi;
b) l’accesso alla scuola mediante adatti accorgimenti per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche che ne impediscono la frequenza;
c) l’assistenza durante gli orari scolastici degli invalidi più gravi.
L ‘istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche ditale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali.
Sarà facilitata, inoltre, la frequenza degli invalidi e mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie.
Le stesse disposizioni valgono per le istituzioni prescolastiche e per i doposcuola”.
La legge 118/71 dà il primo colpo di piccone alla vecchia scuola, iniziando un discorso nuovo sulla problematica degli handicappati, seppure limitato ai soli “fisici”, tralasciando gli “irregolari psichici e gli insufficienti mentali”; teoricamente si inizia una nuova era, un nuovo modo di pensare: ma sostanzialmente tutto rimane fermo.
L’abbattimento auspicato delle barriere architettoniche non c’è stato, e soltanto oggi si tenta di costruire gli edifici di utilità pubblica, comprese le scuole, applicando le norme previste dalla legge 118; le vecchie e sontuose scuole ancora oggi si mostrano nella proprie eguale integrità strutturale, che sembra sfidare l’eternità del tempo, eccezione fatta per qualche scivola rimediata a mala pena.
Né il discorso cambia per i servizi sociali, dove la latitanza delle Istituzioni pubbliche si fa pressoché totale, sia per il trasporto gratuito, che per l’assistenza scolastica degli invalidi più gravi. Le famiglie degli handicappati fisici, certi di avere avuto finalmente con la legge n. 118 un riconoscimento dello stato di disagio, di sofferenza e di totale abbandono, cominciavano a sperare negli aiuti delle Istituzioni pubbliche, i quali puntualmente non venivano concessi, disattendendo l’applicazione della suddetta legge.
Ciò immancabilmente provocava sfiducia, sconforto e continui stati di frustrazione per la mancata applicazione della legge, la quale, sebbene non rappresentasse il toccasana dei problemi legati alle situazioni di handicap, era pur sempre un valido inizio che appariva come una svolta decisiva al modo di rapportarsi alla cultura dell’ “handicap”. Il nuovo approccio al problema, infatti, trovava poi un ulteriore completamento con l’emanazione, in quello stesso anno, della legge 24 settembre 1971. n 820, la quale istituiva la scuola elementare a tempo pieno e si proponeva, almeno nelle intenzioni, di realizzare una “scuola integrata” mediante il realizzarsi di una successione organica e unitaria di momenti educativi (culturali, artistico-espressivi, ludici, ecc.) da attuarsi anche mediante l’intervento di diversi insegnanti debitamente preparati ed operanti in collaborazione tra loro.
Si arriva così al 1975, allorché la C.M. dell’8 agosto, n. 227, immediatamente successiva alla conclusione dei lavori della commissione di studio sui problemi degli handicappati (conosciuta come “Commissione Sen. Falcucci”), prospettava, pur non dando molta rilevanza alla complessità e gravità dei problemi di natura strutturale ed organizzativa, l’opportunità di un normale inserimento scolastico degli alunni handicappati, intendendolo come un passo fondamentale per la piena integrazione del minorato nella scuola.
La circolare n. 227 proponeva l’inserimento dei disabili, in via sperimentale, in gruppi di scuole all’uopo prescelte, non sempre nel quartiere di residenza degli stessi.
Era altresì prevista la costituzione, presso ogni Provveditorato agli Studi, di un apposito Gruppo di lavoro, formato da operatori scolastici, con la funzione di agevolare il processo di inserimento e di integrazione.
Le norme di attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo saranno emanate, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta dei Ministri competenti, entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge.
Art. 28: Ai mutilati e invalidi civili che non siano autosufficienti e che frequentino la scuola dell’obbligo o i corsi di addestramento professionale finanziati dallo Stato vengono assicurati:
a) il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla sede della scuola o del corso e viceversa, a carico dei patronati scolastici o dei consorzi dei patronati scolastici o degli enti gestori dei corsi;
b) l’accesso alla scuola mediante adatti accorgimenti per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche che ne impediscono la frequenza;
c) l’assistenza durante gli orari scolastici degli invalidi più gravi.
L ‘istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche ditale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi normali.
Sarà facilitata, inoltre, la frequenza degli invalidi e mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie.
Le stesse disposizioni valgono per le istituzioni prescolastiche e per i doposcuola”.
La legge 118/71 dà il primo colpo di piccone alla vecchia scuola, iniziando un discorso nuovo sulla problematica degli handicappati, seppure limitato ai soli “fisici”, tralasciando gli “irregolari psichici e gli insufficienti mentali”; teoricamente si inizia una nuova era, un nuovo modo di pensare: ma sostanzialmente tutto rimane fermo.
L’abbattimento auspicato delle barriere architettoniche non c’è stato, e soltanto oggi si tenta di costruire gli edifici di utilità pubblica, comprese le scuole, applicando le norme previste dalla legge 118; le vecchie e sontuose scuole ancora oggi si mostrano nella proprie eguale integrità strutturale, che sembra sfidare l’eternità del tempo, eccezione fatta per qualche scivola rimediata a mala pena.
Né il discorso cambia per i servizi sociali, dove la latitanza delle Istituzioni pubbliche si fa pressoché totale, sia per il trasporto gratuito, che per l’assistenza scolastica degli invalidi più gravi. Le famiglie degli handicappati fisici, certi di avere avuto finalmente con la legge n. 118 un riconoscimento dello stato di disagio, di sofferenza e di totale abbandono, cominciavano a sperare negli aiuti delle Istituzioni pubbliche, i quali puntualmente non venivano concessi, disattendendo l’applicazione della suddetta legge.
Ciò immancabilmente provocava sfiducia, sconforto e continui stati di frustrazione per la mancata applicazione della legge, la quale, sebbene non rappresentasse il toccasana dei problemi legati alle situazioni di handicap, era pur sempre un valido inizio che appariva come una svolta decisiva al modo di rapportarsi alla cultura dell’ “handicap”. Il nuovo approccio al problema, infatti, trovava poi un ulteriore completamento con l’emanazione, in quello stesso anno, della legge 24 settembre 1971. n 820, la quale istituiva la scuola elementare a tempo pieno e si proponeva, almeno nelle intenzioni, di realizzare una “scuola integrata” mediante il realizzarsi di una successione organica e unitaria di momenti educativi (culturali, artistico-espressivi, ludici, ecc.) da attuarsi anche mediante l’intervento di diversi insegnanti debitamente preparati ed operanti in collaborazione tra loro.
Si arriva così al 1975, allorché la C.M. dell’8 agosto, n. 227, immediatamente successiva alla conclusione dei lavori della commissione di studio sui problemi degli handicappati (conosciuta come “Commissione Sen. Falcucci”), prospettava, pur non dando molta rilevanza alla complessità e gravità dei problemi di natura strutturale ed organizzativa, l’opportunità di un normale inserimento scolastico degli alunni handicappati, intendendolo come un passo fondamentale per la piena integrazione del minorato nella scuola.
La circolare n. 227 proponeva l’inserimento dei disabili, in via sperimentale, in gruppi di scuole all’uopo prescelte, non sempre nel quartiere di residenza degli stessi.
Era altresì prevista la costituzione, presso ogni Provveditorato agli Studi, di un apposito Gruppo di lavoro, formato da operatori scolastici, con la funzione di agevolare il processo di inserimento e di integrazione.

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